Organizzati in quattro capitoli, libri o quarti (pāda), gli Yoga Sūtra di Patañjali sono una
raccolta di 196 sūtra o aforismi interconnessi che forniscono passo-passo le istruzioni per
smettere di identificarsi con le variazioni o modifiche (onde del pensiero, vortici) della
mente e per raggiungere infine la completa indipendenza e l'isolamento dalla materia-mente
e la liberazione come pura coscienza.
Nel corso di questa disciplina spirituale si incontrano diverse afflizioni che disturbano
l'equilibrio della mente. Questi impedimenti sono le cause principali di confusione e
sofferenza nella vita.
Patañjali ha identificato otto pratiche che aiutano a superare gli ostacoli, aumentare
discernimento discriminativo, e andare avanti nel proprio sviluppo psico-spirituale. Questi
sono gli otto punti (aṣṭāṅga) della prassi yoga.
Impegnandosi in queste pratiche diligentemente e intensamente, lo yogin può acquisire
progressivamente maggiore controllo di corpo, sensi, emozioni e pensieri, riconosce e
discrimina questi limiti e limitando così i disturbi (il visto) dal proprio vero Sé (il
Veggente), diventa capace della diretta conoscenza dei sensi sottili, infine realizza
pienamente il Sé raggiungendo la liberazione (kaivalya).
Nello specifico, nel primo capitolo (samādhi pāda), costituito da 51 sūtra, Patañjali descrive
che cos’è lo yoga. Si occupa in modo generale di forme particolari di attenzione e di
coscienza che sono gli obiettivi dello yoga. Samādhi significa, infatti, ‘enstasi’,
‘meditazione profonda’ e in questo pāda, Patañjali sembra rivolgersi agli aspiranti esperti,
dotati già di salute fisica perfetta, stabilità mentale, intelligenza discriminante e vocazione
spirituale, fornendo loro una guida nelle discipline della pratica e del distacco al fine di
raggiungere la vetta nel loro cammino spirituale.
Nei primi 4 sūtra, infatti, definisce subito lo stato di yoga e cosa ne consegue quando si
manifesta: “lo yoga è la soppressione dei movimenti della coscienza (I.2.), allora il veggente
dimora nello splendore suo proprio (I.3), in altri momenti il veggente si identifica con le
fluttuazioni della coscienza (I.4.)”.
Dopo aver descritto i movimenti della coscienza e le cause che li provocano (dal verso I.5 al
I.11), l’autore indica direttamente quali sono i mezzi per calmare tali fluttuazioni, ovvero la
pratica (abhyāsa) e il distacco (vairāgya).
La pratica come costanza, lavoro quotidiano ininterrotto e attento, come ardua volontà; il
distacco come scomparsa graduale dei desideri, come percezione dell’anima. Dunque pratica
e distacco come due elementi chiave per generare Samādhi (da I.12 a I.16).
L’autore inoltre, non individua semplicemente la meta finale, ma descrive anche i vari tipi di
Samādhi e li espone come se fossero gradini di una scala. Distingue, anche, livelli di
sādhaka (praticante) facendoci comprendere, così, che si tratta di un percorso lungo, lento,
graduale, e che la disciplina dello yoga richiede un intenso lavoro e piena dedizione (dal I.
17 al I.22).
Oltre alla pratica e al distacco, individua poi un altro mezzo per arrestare le fluttuazioni della
mente, ovvero “la meditazione profonda su Dio e la totale sottomissione a Lui”. I versi che
vanno dal I.23 al I.29 sono gli unici, nel testo, in cui si parla di Dio (Īśvara).
Non si tratta né di un Dio creatore né di un Dio giudice, ma di un Dio che può essere di aiuto
allo yogin (I.23). Dal punto di vista dottrinale, Dio è definito come il sommo Sé, un
particolare spirito (puruṣa) quindi, consapevolezza suprema (I.24-25), maestro di ogni
maestro (I.26). Īśvara è quindi un archetipo dello yogin, un collaboratore supremo ideale, un
modello al quale, volendo, abbandonarsi.
Nell’ultima parte del capitolo, l’autore elenca nove ostacoli al controllo del sé interiore e
subito dopo espone le fasi della purificazione di citta (la coscienza) attraverso le quali non
solo si superano gli ostacoli, ma gradualmente si arriva a un samadhi senza seme, in cui
l’anima si manifesta e arde senza forma, con chiarezza primordiale.
Il secondo libro (sādhana pāda) è costituito da 55 sūtra e verte sulle pratiche più importanti
di questa disciplina spirituale. Sādhana, infatti, significa appunto ‘pratica’, e in questo
capitolo Patañjali indica come iniziare la pratica e come lavorare per l’emancipazione
spirituale.
Nel primo verso indica subito quali sono le azioni (Kriyā Yoga) che il praticante deve
seguire: desiderio ardente nella pratica (tapas), lo studio di se stessi (svādhyāya) e delle
sacre scritture (Īśvara praṇidhāna).
Solo grazie a questo triplice lavoro, il sādhaka, può raggiungere il samādhi superando le
afflizioni (kleśa) che ostacolano il suo cammino.
Tali afflizioni vengono individuate e
analizzate nei versi successivi (dal II.3 al II.9); esse sono: ignoranza (avidyā), egoismo
(asmitā), attaccamento (rāga), l'avversione (dveṣa), e attaccamento alla vita (abhiniveśa).
L’autore precisa che devono essere eliminate attraverso un processo di involuzione e con
profonda meditazione (II.10 e II.11); se non vengono bruciate, si ripresenteranno sul cammino del praticante seguendo le leggi e i meccanismi del karma esposti dal verso II.12 al
verso II.17. Questi stati dolorosi sono la causa degli atti (karma) compiuti in questa e nelle
precedenti vite (II.12), e ciò che adesso facciamo influenzerà anche la posizione sociale, la
durata e le esperienze della prossima vita (II.13).
Tra tutte le afflizioni, Patañjali si sofferma soprattutto sull’ignoranza, vedendola come causa
di tutte le altre, e dedica diversi sūtra per spiegarne il motivo (da II.18 a II.28): Avidyā è
l’associazione o l’identificazione del veggente con il veduto e dunque l’incapacità di
distinguere ciò che è percepito da ciò che percepisce. La natura, sotto forma di tre qualità, è
ciò che viene percepito e ha un unico scopo: quello di chiarire la distinzione tra l’esteriore
che è visto e l’interiore che vede. Soltanto la distruzione dell’ignoranza attraverso tale giusta
comprensione spezza il legame con l’oggetto visto. Questo è kaivalya, l’emancipazione.
L’autore passa adesso ad esporre il sentiero ottuplice dello yoga (Aṣṭāṅga yoga),
individuando otto tipi di pratiche: regole morali (yama), osservanze fisse (niyama), posizioni
(āsana), controllo del respiro (prāṇāyāma), ritiro dei sensi verso la loro origine (pratyāhāra),
concentrazione (dhāraṇā), meditazione (dhyāna) e assorbimento della coscienza nel sé
(samādhi).
I freni e le discipline (yama e niyama) riguardano l'aspetto etico della vita dello yogin: si
tratta di astensioni e osservanze non specifici di questa filosofia, ma Patañjali li ritiene
fondamentali per il percorso yogico: essi tendono a creare uno stato "purificato"
indispensabile.
Le posizioni, il controllo della respirazione e la ritrazione dei sensi (āsana,
prāṇāyāma e pratyāhāra) costituiscono invece la tecnica yoga propriamente detta; con essi,
l’autore, conclude il secondo quarto.
Nel terzo capitolo (vibhuti pāda), invece, espone quali sono le proprietà e gli effetti dello
yoga e inizia introducendo proprio gli ultimi tre āṅga dell’ottuplice sentiero dello yoga.
Molto probabilmente, considera queste tre pratiche una conseguenza degli step precedenti e
vede la conquista spirituale come un frutto da poter assaporare soltanto dopo aver coltivato
la ricerca esteriore e quella interiore.
Il retto comportamento unito alla pratica (le prime cinque fasi dell’ottuplice sentiero)
permettono, infatti, di sperimentare le seguenti tre: concentrazione, meditazione e
congiunzione (dhāraṇā, dhyāna e samādhi).
Patañjali accomuna queste ultime tre fasi adoperando il termine saṃyama (III.4) che
considera fondamentale per la realizzazione e a cui dedica diversi sūtra per descriverne le
caratteristiche (fino al 3.15).
Dhāraṇā è la concentrazione su un oggetto scelto come ausilio (III.1), concentrazione nel
senso di fissare l'attenzione su tale oggetto. Continuando il dhāraṇā, quando il pensiero è
diventato fluido e completamente centrato sull'oggetto, si ottiene il dhyāna (III.2). In
letteratura il termine sanscrito dhyāna è a volte tradotto con "meditazione", ma si tratta
evidentemente di ben altro dalla "meditazione profana", essendo il dhyāna uno stato
particolare dell'attenzione preceduto da un preciso complesso di tecniche e sostenuto da un
retto comportamento.
Quando, nel dhyāna, l'oggetto si rivela in sé stesso, non distorto da chi
vi sta meditando, allora si ha il samādhi (III.3). Vijñāna Bhikṣu commenta questo passaggio
affermando che il samādhi è quando ci si libera della meditazione, dell'oggetto meditato e
del soggetto meditante. Egli aggiunge che mentre il dhyāna è suscettibile di essere interrotto,
il samādhi è al contrario uno stato "invulnerabile", chiuso agli stimoli.
A partire dal sūtra III.16 vengono, invece, esposti i "poteri miracolosi" (vibhūti; o anche
siddhi, che letteralmente vuol dire "perfezioni”) come risultato della pratica del saṃyama:
concentrandosi su uno o più oggetti e quindi meditando su di essi e realizzando la
congiunzione, lo yogin acquista poteri "occulti".
Alcune siddhi sono: conoscenza del passato e del futuro (III.16); conoscenza delle vite
precedenti (III.18); conoscenza degli stati psicomentali altrui (III.19); invisibilità (III.21);
conoscenza del sistema solare (III.27); scomparsa della fame e della sete (III.31); levitazione
(III.40), eccetera.
Secondo l’autore, tali poteri giungono in maniera spontanea allo yogi che ha integrato il
corpo, la mente e lo spirito, ma anche tale conoscenza può diventare fonte di distrazione,
impedendo di raggiungere lo stato supremo dell’essere. Nei versi III.38 e III.51, infatti,
l’autore mette in guardia il praticante dalla corruzione di questi poteri che non vanno
assolutamente confusi con la meta finale, ma piuttosto evitati per poter seguire il sādhana
fino al kaivalya, culmine dell’esistenza indivisibile.
Patanjali inizia il quarto e ultimo capitolo (kaivalya pāda) concludendo il precedente e
affermando che è possibile che qualcuno possegga questi poteri mistici anche per nascita
(cioè da una eredità di pratiche yogiche svolte in qualche vita precedente), mediante droghe
(ma il loro effetto è estremamente circoscritto nella qualità e nel tempo), grazie alla
concentrazione sulla recitazione di mantra, e anche attraverso le austerità e il samadhi.
Poi introduce l'argomento della liberazione, spiegando che il passaggio da un corpo all'altro
accade per l'azione della natura materiale. E' lei infatti che concede i risultati delle azioni, le quali non sono le cause dirette, ma solo e sempre secondarie. Chi desidera avanzare nella
vita spirituale, deve eliminare gli ostacoli che si frappongono fra lui e il suo fine, proprio
come un contadino che rimuove gli ostacoli per facilitare il cammino dell'acqua in direzione
dei terreni coltivati.
Nel settimo sūtra di questa sezione, Patañjali così scrive: “Le azioni di uno yogi non sono né
bianche né nere. Le azioni degli altri sono di tre tipi: bianche, nere e grigie.” Questa
distinzione in tre parti del karma (azioni) ha una sua corrispondenza con le tre guṇa, le tre
componenti, o qualità, della prakṛti (materia): secondo il Sāṃkhya le trasformazioni che la
materia subisce nel tempo (pariṇāma, evoluzione) sono dovute all'avvicendarsi di queste tre
componenti fondamentali: tamas, rajas, sattva.
Ai primordi del tempo, le tre guṇa giacciono
in perfetto equilibrio fra loro: è lo stato della materia immanifesta, il tempo non esiste.
Quando questo equilibrio si altera, la materia diventa manifesta, il tempo ha inizio. Gli
aspetti della materia, esseri viventi inclusi, non sono se non l'effetto della colorazione che
viene dalle guṇa. Anche le nostre azioni (karma) sono perciò colorate dalle guṇa: nere
(tamas), grigie (rajas) e bianche (sattva).
Così non è per lo yogin che ha raggiunto la perfezione: egli è al di là delle guṇa, il che
equivale a dire che il karma, la legge di causa ed effetto, non lo vincola più, è libero. Nel
commentare questo sūtra, Iyengar afferma che è qui che viene evidenziato il vero significato
del Kaivalya Pāda.
Il tema del libero agire ha una sua importanza centrale in un mondo che è
dominato dalla legge del karma.
Nei successivi sūtra Patañjali spiega che gli effetti, o frutti, delle azioni passano da una vita
alla successiva avendo come substrato la memoria (smṛti) (IV.9) e presentandosi come
desideri (IV.10): passato e futuro sono perciò reali come lo è il presente, gli stati del tempo
corrispondono a differenti combinazioni delle guṇa (IV.12-13), il cui gioco ha come effetto
di produrre l'illusione del tempo.
Dal sūtra IV.16 il filosofo si pone il problema del rapporto fra citta e puruṣa, fra il prodotto
più evoluto della materia (materiale mentale, mente o coscienza che dir si voglia) e lo spirito
cioè, in relazione al problema della conoscenza. Il citta non può conoscere sé stessa (IV.19),
e: “La coscienza (citta) non può comprendere il veggente e se stessa allo stesso tempo”
(IV.20).
Il citta è unitario (IV.21), ma mosso da molte impressioni (vāsana); la sua funzione
ultima è, e resta, quella di agire per il puruṣa (IV.24). Quando si sarà compreso pienamente
questo rapporto, cioè la distinzione (viśeṣa) che sussiste fra i due (IV.25), allora si potrà
affermare di essere nel kaivalya (IV.26).
Nel primo pāda Patañjali ha spiegato cosa è il samādhi, nel secondo ha illustrato i mezzi
pratici per conseguirlo; quali i suoi frutti nel terzo. Negli ultimi sūtra di quest'ultimo pāda,
dopo aver discusso su cosa debba intendersi per kaivalya, egli torna su quell'argomento:
quando si raggiunge il samādhi, le tre guṇa terminano il loro compito (IV.32), il tempo si
ferma (IV.33) e: “La risoluzione in senso inverso delle qualità (guṇa), priva così di ogni
spunto di azione per lo spirito (puruṣa), è il kaivalya, ossia il ristabilirsi della conoscenza
nella natura che gli è propria.” (IV.33, IV.34).
Come aveva già espresso in II.18, II.21 e poi ribadito in IV.24, la natura (prakṛti) esiste non
per soddisfare sé stessa ma per consentire l'emancipazione (apavarga), per consentire cioè da
un lato, alla propria parte più elevata (il citta) di riconoscere sì d'essere altro dallo spirito
(puruṣa), ma al contempo affine a questo; dall'altro, al puruṣa di non essere più ingannato
dall'evoluzione della prakṛti, d'essere al di là del legame causa-effetto, cioè, e quindi di
ritrovare la sua autentica natura, che è pura conoscenza (dṛśimātraḥ śuddhaḥ) (II.20).