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martedì 23 ottobre 2018

#YOGATHEORY: RIPRENDONO LE LEZIONI DI TEORIA DELLO YOGA


Yoga Aversa è lieta di annunciarvi che ripartiranno, anche per quest'anno, le lezioni di TEORIA DELLO YOGA, riservate ai soci iscritti ai corsi del nostro centro. 


Periodicamente, terremo degli incontri gratuiti, sugli insegnamenti dello yoga, sui guru che hanno fatto grande questa disciplina, sulla storia, sulle leggende e su tutte le curiosità legate al mondo yoga. 

Sabato 27 Ottobre, dalle ore 18.30 alle ore 20:30, scopriremo la vita e lo studio degli YogaSutra da parte del guru e filosofo Patanjalj.


Presto vi aggiorneremo su tutti temi che affronteremo. Non mancate! 

#YogaAversa #Namaste #YogaTheory 



lunedì 25 settembre 2017

YOGA THEORY: INTRODUZIONE AGLI YOGA SUTRA DI PATANJALI

Organizzati in quattro capitoli, libri o quarti (pāda), gli Yoga Sūtra di Patañjali sono una raccolta di 196 sūtra o aforismi interconnessi che forniscono passo-passo le istruzioni per smettere di identificarsi con le variazioni o modifiche (onde del pensiero, vortici) della mente e per raggiungere infine la completa indipendenza e l'isolamento dalla materia-mente e la liberazione come pura coscienza. 

Nel corso di questa disciplina spirituale si incontrano diverse afflizioni che disturbano l'equilibrio della mente. Questi impedimenti sono le cause principali di confusione e sofferenza nella vita. Patañjali ha identificato otto pratiche che aiutano a superare gli ostacoli, aumentare discernimento discriminativo, e andare avanti nel proprio sviluppo psico-spirituale. Questi sono gli otto punti (aṣṭāṅga) della prassi yoga. 

Impegnandosi in queste pratiche diligentemente e intensamente, lo yogin può acquisire progressivamente maggiore controllo di corpo, sensi, emozioni e pensieri, riconosce e discrimina questi limiti e limitando così i disturbi (il visto) dal proprio vero Sé (il Veggente), diventa capace della diretta conoscenza dei sensi sottili, infine realizza pienamente il Sé raggiungendo la liberazione (kaivalya). 
Nello specifico, nel primo capitolo (samādhi pāda), costituito da 51 sūtra, Patañjali descrive che cos’è lo yoga. Si occupa in modo generale di forme particolari di attenzione e di coscienza che sono gli obiettivi dello yoga. Samādhi significa, infatti, ‘enstasi’, ‘meditazione profonda’ e in questo pāda, Patañjali sembra rivolgersi agli aspiranti esperti, dotati già di salute fisica perfetta, stabilità mentale, intelligenza discriminante e vocazione spirituale, fornendo loro una guida nelle discipline della pratica e del distacco al fine di raggiungere la vetta nel loro cammino spirituale.

Nei primi 4 sūtra, infatti, definisce subito lo stato di yoga e cosa ne consegue quando si manifesta: “lo yoga è la soppressione dei movimenti della coscienza (I.2.), allora il veggente dimora nello splendore suo proprio (I.3), in altri momenti il veggente si identifica con le fluttuazioni della coscienza (I.4.)”. Dopo aver descritto i movimenti della coscienza e le cause che li provocano (dal verso I.5 al I.11), l’autore indica direttamente quali sono i mezzi per calmare tali fluttuazioni, ovvero la pratica (abhyāsa) e il distacco (vairāgya). 

La pratica come costanza, lavoro quotidiano ininterrotto e attento, come ardua volontà; il distacco come scomparsa graduale dei desideri, come percezione dell’anima. Dunque pratica e distacco come due elementi chiave per generare Samādhi (da I.12 a I.16). L’autore inoltre, non individua semplicemente la meta finale, ma descrive anche i vari tipi di Samādhi e li espone come se fossero gradini di una scala. Distingue, anche, livelli di sādhaka (praticante) facendoci comprendere, così, che si tratta di un percorso lungo, lento, graduale, e che la disciplina dello yoga richiede un intenso lavoro e piena dedizione (dal I. 17 al I.22). 

Oltre alla pratica e al distacco, individua poi un altro mezzo per arrestare le fluttuazioni della mente, ovvero “la meditazione profonda su Dio e la totale sottomissione a Lui”. I versi che vanno dal I.23 al I.29 sono gli unici, nel testo, in cui si parla di Dio (Īśvara). Non si tratta né di un Dio creatore né di un Dio giudice, ma di un Dio che può essere di aiuto allo yogin (I.23). Dal punto di vista dottrinale, Dio è definito come il sommo Sé, un particolare spirito (puruṣa) quindi, consapevolezza suprema (I.24-25), maestro di ogni maestro (I.26). Īśvara è quindi un archetipo dello yogin, un collaboratore supremo ideale, un modello al quale, volendo, abbandonarsi. 
Nell’ultima parte del capitolo, l’autore elenca nove ostacoli al controllo del sé interiore e subito dopo espone le fasi della purificazione di citta (la coscienza) attraverso le quali non solo si superano gli ostacoli, ma gradualmente si arriva a un samadhi senza seme, in cui l’anima si manifesta e arde senza forma, con chiarezza primordiale. Il secondo libro (sādhana pāda) è costituito da 55 sūtra e verte sulle pratiche più importanti di questa disciplina spirituale. Sādhana, infatti, significa appunto ‘pratica’, e in questo capitolo Patañjali indica come iniziare la pratica e come lavorare per l’emancipazione spirituale. 

Nel primo verso indica subito quali sono le azioni (Kriyā Yoga) che il praticante deve seguire: desiderio ardente nella pratica (tapas), lo studio di se stessi (svādhyāya) e delle sacre scritture (Īśvara praṇidhāna). Solo grazie a questo triplice lavoro, il sādhaka, può raggiungere il samādhi superando le afflizioni (kleśa) che ostacolano il suo cammino. 

Tali afflizioni vengono individuate e analizzate nei versi successivi (dal II.3 al II.9); esse sono: ignoranza (avidyā), egoismo (asmitā), attaccamento (rāga), l'avversione (dveṣa), e attaccamento alla vita (abhiniveśa). L’autore precisa che devono essere eliminate attraverso un processo di involuzione e con profonda meditazione (II.10 e II.11); se non vengono bruciate, si ripresenteranno sul cammino del praticante seguendo le leggi e i meccanismi del karma esposti dal verso II.12 al verso II.17. Questi stati dolorosi sono la causa degli atti (karma) compiuti in questa e nelle precedenti vite (II.12), e ciò che adesso facciamo influenzerà anche la posizione sociale, la durata e le esperienze della prossima vita (II.13). 

Tra tutte le afflizioni, Patañjali si sofferma soprattutto sull’ignoranza, vedendola come causa di tutte le altre, e dedica diversi sūtra per spiegarne il motivo (da II.18 a II.28): Avidyā è l’associazione o l’identificazione del veggente con il veduto e dunque l’incapacità di distinguere ciò che è percepito da ciò che percepisce. La natura, sotto forma di tre qualità, è ciò che viene percepito e ha un unico scopo: quello di chiarire la distinzione tra l’esteriore che è visto e l’interiore che vede. Soltanto la distruzione dell’ignoranza attraverso tale giusta comprensione spezza il legame con l’oggetto visto. Questo è kaivalya, l’emancipazione. 

L’autore passa adesso ad esporre il sentiero ottuplice dello yoga (Aṣṭāṅga yoga), individuando otto tipi di pratiche: regole morali (yama), osservanze fisse (niyama), posizioni (āsana), controllo del respiro (prāṇāyāma), ritiro dei sensi verso la loro origine (pratyāhāra), concentrazione (dhāraṇā), meditazione (dhyāna) e assorbimento della coscienza nel sé (samādhi). I freni e le discipline (yama e niyama) riguardano l'aspetto etico della vita dello yogin: si tratta di astensioni e osservanze non specifici di questa filosofia, ma Patañjali li ritiene fondamentali per il percorso yogico: essi tendono a creare uno stato "purificato" indispensabile. 


Le posizioni, il controllo della respirazione e la ritrazione dei sensi (āsana, prāṇāyāma e pratyāhāra) costituiscono invece la tecnica yoga propriamente detta; con essi, l’autore, conclude il secondo quarto. 

Nel terzo capitolo (vibhuti pāda), invece, espone quali sono le proprietà e gli effetti dello yoga e inizia introducendo proprio gli ultimi tre āṅga dell’ottuplice sentiero dello yoga. Molto probabilmente, considera queste tre pratiche una conseguenza degli step precedenti e vede la conquista spirituale come un frutto da poter assaporare soltanto dopo aver coltivato la ricerca esteriore e quella interiore. 
Il retto comportamento unito alla pratica (le prime cinque fasi dell’ottuplice sentiero) permettono, infatti, di sperimentare le seguenti tre: concentrazione, meditazione e congiunzione (dhāraṇā, dhyāna e samādhi). Patañjali accomuna queste ultime tre fasi adoperando il termine saṃyama (III.4) che considera fondamentale per la realizzazione e a cui dedica diversi sūtra per descriverne le caratteristiche (fino al 3.15).

Dhāraṇā è la concentrazione su un oggetto scelto come ausilio (III.1), concentrazione nel senso di fissare l'attenzione su tale oggetto. Continuando il dhāraṇā, quando il pensiero è diventato fluido e completamente centrato sull'oggetto, si ottiene il dhyāna (III.2). In letteratura il termine sanscrito dhyāna è a volte tradotto con "meditazione", ma si tratta evidentemente di ben altro dalla "meditazione profana", essendo il dhyāna uno stato particolare dell'attenzione preceduto da un preciso complesso di tecniche e sostenuto da un retto comportamento. 
Quando, nel dhyāna, l'oggetto si rivela in sé stesso, non distorto da chi vi sta meditando, allora si ha il samādhi (III.3). Vijñāna Bhikṣu commenta questo passaggio affermando che il samādhi è quando ci si libera della meditazione, dell'oggetto meditato e del soggetto meditante. Egli aggiunge che mentre il dhyāna è suscettibile di essere interrotto, il samādhi è al contrario uno stato "invulnerabile", chiuso agli stimoli. A partire dal sūtra III.16 vengono, invece, esposti i "poteri miracolosi" (vibhūti; o anche siddhi, che letteralmente vuol dire "perfezioni”) come risultato della pratica del saṃyama: concentrandosi su uno o più oggetti e quindi meditando su di essi e realizzando la congiunzione, lo yogin acquista poteri "occulti". 

Alcune siddhi sono: conoscenza del passato e del futuro (III.16); conoscenza delle vite precedenti (III.18); conoscenza degli stati psicomentali altrui (III.19); invisibilità (III.21); conoscenza del sistema solare (III.27); scomparsa della fame e della sete (III.31); levitazione (III.40), eccetera. 
Secondo l’autore, tali poteri giungono in maniera spontanea allo yogi che ha integrato il corpo, la mente e lo spirito, ma anche tale conoscenza può diventare fonte di distrazione, impedendo di raggiungere lo stato supremo dell’essere. Nei versi III.38 e III.51, infatti, l’autore mette in guardia il praticante dalla corruzione di questi poteri che non vanno assolutamente confusi con la meta finale, ma piuttosto evitati per poter seguire il sādhana fino al kaivalya, culmine dell’esistenza indivisibile. 

Patanjali inizia il quarto e ultimo capitolo (kaivalya pāda) concludendo il precedente e affermando che è possibile che qualcuno possegga questi poteri mistici anche per nascita (cioè da una eredità di pratiche yogiche svolte in qualche vita precedente), mediante droghe (ma il loro effetto è estremamente circoscritto nella qualità e nel tempo), grazie alla concentrazione sulla recitazione di mantra, e anche attraverso le austerità e il samadhi. 
Poi introduce l'argomento della liberazione, spiegando che il passaggio da un corpo all'altro accade per l'azione della natura materiale. E' lei infatti che concede i risultati delle azioni, le quali non sono le cause dirette, ma solo e sempre secondarie. Chi desidera avanzare nella vita spirituale, deve eliminare gli ostacoli che si frappongono fra lui e il suo fine, proprio come un contadino che rimuove gli ostacoli per facilitare il cammino dell'acqua in direzione dei terreni coltivati. 

Nel settimo sūtra di questa sezione, Patañjali così scrive: “Le azioni di uno yogi non sono né bianche né nere. Le azioni degli altri sono di tre tipi: bianche, nere e grigie.” Questa distinzione in tre parti del karma (azioni) ha una sua corrispondenza con le tre guṇa, le tre componenti, o qualità, della prakṛti (materia): secondo il Sāṃkhya le trasformazioni che la materia subisce nel tempo (pariṇāma, evoluzione) sono dovute all'avvicendarsi di queste tre componenti fondamentali: tamas, rajas, sattva. 
Ai primordi del tempo, le tre guṇa giacciono in perfetto equilibrio fra loro: è lo stato della materia immanifesta, il tempo non esiste. Quando questo equilibrio si altera, la materia diventa manifesta, il tempo ha inizio. Gli aspetti della materia, esseri viventi inclusi, non sono se non l'effetto della colorazione che viene dalle guṇa. Anche le nostre azioni (karma) sono perciò colorate dalle guṇa: nere (tamas), grigie (rajas) e bianche (sattva). Così non è per lo yogin che ha raggiunto la perfezione: egli è al di là delle guṇa, il che equivale a dire che il karma, la legge di causa ed effetto, non lo vincola più, è libero. Nel commentare questo sūtra, Iyengar afferma che è qui che viene evidenziato il vero significato del Kaivalya Pāda. 
Il tema del libero agire ha una sua importanza centrale in un mondo che è dominato dalla legge del karma. 

Nei successivi sūtra Patañjali spiega che gli effetti, o frutti, delle azioni passano da una vita alla successiva avendo come substrato la memoria (smṛti) (IV.9) e presentandosi come desideri (IV.10): passato e futuro sono perciò reali come lo è il presente, gli stati del tempo corrispondono a differenti combinazioni delle guṇa (IV.12-13), il cui gioco ha come effetto di produrre l'illusione del tempo. 
Dal sūtra IV.16 il filosofo si pone il problema del rapporto fra citta e puruṣa, fra il prodotto più evoluto della materia (materiale mentale, mente o coscienza che dir si voglia) e lo spirito cioè, in relazione al problema della conoscenza. Il citta non può conoscere sé stessa (IV.19), e: “La coscienza (citta) non può comprendere il veggente e se stessa allo stesso tempo” (IV.20). 


Il citta è unitario (IV.21), ma mosso da molte impressioni (vāsana); la sua funzione ultima è, e resta, quella di agire per il puruṣa (IV.24). Quando si sarà compreso pienamente questo rapporto, cioè la distinzione (viśeṣa) che sussiste fra i due (IV.25), allora si potrà affermare di essere nel kaivalya (IV.26).

Nel primo pāda Patañjali ha spiegato cosa è il samādhi, nel secondo ha illustrato i mezzi pratici per conseguirlo; quali i suoi frutti nel terzo. Negli ultimi sūtra di quest'ultimo pāda, dopo aver discusso su cosa debba intendersi per kaivalya, egli torna su quell'argomento: quando si raggiunge il samādhi, le tre guṇa terminano il loro compito (IV.32), il tempo si ferma (IV.33) e: “La risoluzione in senso inverso delle qualità (guṇa), priva così di ogni spunto di azione per lo spirito (puruṣa), è il kaivalya, ossia il ristabilirsi della conoscenza nella natura che gli è propria.” (IV.33, IV.34). 
Come aveva già espresso in II.18, II.21 e poi ribadito in IV.24, la natura (prakṛti) esiste non per soddisfare sé stessa ma per consentire l'emancipazione (apavarga), per consentire cioè da un lato, alla propria parte più elevata (il citta) di riconoscere sì d'essere altro dallo spirito (puruṣa), ma al contempo affine a questo; dall'altro, al puruṣa di non essere più ingannato dall'evoluzione della prakṛti, d'essere al di là del legame causa-effetto, cioè, e quindi di ritrovare la sua autentica natura, che è pura conoscenza (dṛśimātraḥ śuddhaḥ) (II.20).   

giovedì 19 marzo 2015

Che cos'è l'Iyengar Yoga?

Lo yoga è uno dei sei Darshana, ovvero uno dei sei sistemi filosofici ortodossi indiani. Ogni darshana rappresenta un punto di vista metafisico della filosofia indiana, scaturito dalla sapienza vedica (i Veda sono un'antichissima raccolta in sanscrito di testi sacri dei popoli arii che invasero l'India intorno al XX secolo a.C.).

In realtà un Darshana non è un sistema filosofico nel senso che questo termine ha in Occidente, ma è pur sempre un sistema di affermazioni coerenti coestensibile all'esperienza umana la quale esso si sforza di interpretare nel suo insieme col fine di "liberare l'uomo dall'ignoranza".

I Darshana si differenziano tra loro non per il fatto di assumere un oggetto diverso di speculazione, ma perché "osservavano" la medesima realtà da diversi punti di vista, cioè da diverse angolature. Darshana, infatti, significa proprio vista, visione, comprensione, punto di vista, dottrina. 




Patanjali
Lo yoga è dunque uno di questi darshana e lo "Yoga Sutra" di Patanjali, l'opera più antica che tratti di yoga, è il trattato che ne sintetizza la dottrina. 
Da un punto di vista dottrinale, lo Yoga fa proprie le tematiche del Sàmkhya, un altro darshana della tradizione indù, che vede all'origine dell'Universo due polarità fondamentali e distinte: prakriti e purusha, la materia e lo spirito. Prakriti possiede tre qualità (guna): sattva, rajas, tamas, rappresentanti la tendenza ascendente e all'elevazione (sattva); la tendenza all'espansione o alla dispersione in senso orizzontale (rajas); la tendenza discendente o all'inerzia (tamas).

Quando le forze dei tre guna, tra loro antagoniste, sono in equilibrio, prakrti non produce alcuna modificazione e l'intera manifestazione riposa allo stato potenziale di germe. Quando tale equilibrio si rompe, prakriti emana l'intero Universo. Per la dottrina del Samkhya l'universo è infatti fondato su una coppia di contrari che si riflette in ogni suo aspetto: notte e giorno, caldo e freddo, uomo e donna, ecc.





Come abbiamo detto, lo Yoga fa proprie le tematiche del Samkhya, introducendo però, da una prospettiva più elevata, la divinità (Ishvara) da cui Purusha e Prakriti emanano. Benché i testi sull'argomento diffusi in Occidente siano concordi nell'affermare che yoga vuol dire "unione" (dalla radice yuj: unire, legare), non sempre però viene poi spiegato in modo chiaro il significato che tale unione comporta. Dopo quanto detto, è evidente che non è dell'unione del corpo con la mente che si tratta, ma dell'unione di prakriti e purusha nella prospettiva unitaria della divinità da cui tutto emana e che in sé concilia ogni contrasto. 



Nella sua opera, Patanjali, definisce lo yoga come yogah cittavrttinirodhah (Yoga Sutra, I, 2) che può essere tradotto come: "Lo yoga è l'arresto del turbine della coscienza" o come "Lo yoga è la cessazione delle fluttuazioni della mente", e identifica otto anga, membra o arti dello yoga, attraverso i quali si può raggiungere il fine ultimo, e cioè “l’unione suprema”.

Essi sono: 

  - Yama, i comandamenti morali universali; 
  - Niyama, l’autopurificazione con la disciplina; 
  - Asana, le posizioni; 
  - Pranayama, il controllo ritmico del respiro; 
  - Pratyahara, il controllo e l’emancipazione della mente dal dominio dei sensi e degli
    oggetti esteriori;

  - Dharana, la concentrazione; 
  - Dhyana, la meditazione; 

  - Samadhi, il raggiungimento della super-coscienza e unione con lo spirito universale. 



Quello sistemato da Patanjali rappresenta il cosiddetto “Yoga classico”. Ma a fianco di tale tipo di yoga, esistono innumerevoli forme “popolari”, asistematiche di yoga; esistono yoga non brahmanici (quello dei buddisti e quello degli jnaina) e soprattutto esistono yoga di struttura “magica”, altri di struttura “mistica”, ecc. 




In un quadro apparentemente così complesso, l'Iyengar yoga si inserisce nella tradizione dell'Hatha yoga e, più precisamente, nella tradizione di Patanjali e dello Yoga Sutra. Viene considerato, quindi, yoga classico.

B.K.S. Iyengar

Il suo “fondatore” B.K.S. Iyengar, allievo del guru Sri Tirumalai Krishnamacharya. ha fatto un grosso lavoro su se stesso, sulle posizioni e sull'effetto delle posizioni lavorando a livello degli organi, a livello dei sensi di percezione e a livello della mente. 
Ha creato, dunque, una sua corrente di asana e di pranayama conosciuta per l'attenzione che consacra all'allineamento del corpo e per il suo ampio uso dei sostegni. Iyengar ha sistematizzato, infatti, molte posizioni (asana) dello yoga classico e diverse tecniche di pranayama che vanno da un livello base ad avanzato. Questo aiuta a garantire ai praticanti di progredire gradualmente passando da posture semplici a quelle più complesse e di sviluppare mente, corpo e spirito step-by-step. 

Il fatto più importante è che questo lavoro, sugli asana e sul pranayama, conferisce una rigida stabilità al corpo e nel medesimo tempo riduce lo sforzo fisico al minimo; si regolano i processi fisiologici, e si permette in questo modo all'attenzione di occuparsi esclusivamente della parte fluida della coscienza. 

L'Iyengar yoga si differenzia dagli altri stili di hatha yoga per diversi elementi chiave e in particolare per la tecnica, le sequenze in cui le asana e gli esercizi di respirazione si praticano e i tempi. 

B.K.S. Iyengar
Riguardo alla tecnica, questo metodo è caratterizzato da una grande attenzione ai dettagli e alla messa a fuoco precisa sull'allineamento del corpo. Un principio fondamentale, infatti, è proprio l’allineamento in ogni asana, che comporta un lavoro simmetrico in tutto il corpo e crea spazio nelle articolazioni e negli organi, migliorandone la funzionalità. L'attenzione sugli allineamenti non mira semplicemente all'esecuzione corretta della posizione, ma è finalizzata allo sviluppo della consapevolezza del proprio corpo da utilizzare in tutti gli aspetti della nostra vita. 


Attrezzi e sostegni tipici dell'Iyengar yoga

Per permettere a tutti di ottenere i benefici degli asana e del pranayama, Iyengar ha introdotto, inoltre, l’uso di supporti quali coperte, cinture, mattoni, sedie, cuscini, sacchi di sabbia, ecc., che migliorano l’efficacia delle posizioni e riducono lo sforzo. Tali sostegni consentono agli studenti non solo di svolgere correttamente gli asana ma anche di diminuire il rischio di lesioni, rendendo così le posture accessibili a tutti anche a persone con gravi problemi. Iyengar, infatti, ha anche il merito di aver sviluppato l’applicazione terapeutica delle posizioni, modificando gli asana in modo che gli allievi colpiti da qualche forma di invalidità possano trarne il massimo beneficio psico-fisico. 


Altro punto fondamentale riguarda la sequenza e il modo in cui vengono combinati gli asana e gli esercizi di respirazione durante la pratica dell'Iyengar Yoga. Una corretta sequenza all'interno di una sessione di pratica gioca un ruolo importante nel raggiungimento del massimo beneficio dalla sessione. Le diverse categorie di asana, infatti, esercitano effetti diversi non solo sul corpo, ma anche sulla mente e sulle emozioni. Nessuna sequenza, quindi, sarà opportuna per ogni persona, per ogni mentalità, per ogni livello di energia, per ogni livello di esperienza, per ogni giorno. La tradizione Iyengar non dispone di sequenze standard che sono praticate da tutti; le sequenze in tale disciplina sono influenzate da molti fattori e dalle caratteristiche dei praticanti: l'età, l'esperienza, lo stato mentale e fisico in un determinato giorno, il tempo a disposizione, ecc. 
Esempio di sequenza di asanas

Altro elemento chiave dell'Iyengar Yoga è il tempo impiegato per costruire e tenere un asana o effettuare un esercizio di pranayama. Per lo sviluppo e il corretto allineamento di ogni asana è necessario un tempo che spesso in altre scuole di hatha yoga non viene dato semplicemente perché la pratica è più veloce o in movimento. Da principio l'asana è faticoso e addirittura insopportabile. Ma dopo un certo periodo di allenamento, lo sforzo nel mantenere il corpo nella medesima posizione diventa minimo. Lo sforzo deve scomparire e la posizione meditativa deve divenire naturale; solamente allora essa facilita la concentrazione. “La posizione diventa perfetta solo quando lo sforzo per realizzarla scompare, in modo che non ci sia più alcun movimento nel corpo. Del pari, si raggiunge la sua perfezione, quando lo spirito si trasforma in infinito, cioè quando esso fa dell'idea di infinito il proprio contenuto” (Vyasa, ad Yoga-Sutra, II, 47).


Le dimostrazioni visive, le istruzioni verbali e le correzioni attive da parte dell'insegnante dei disallineamenti e degli errori durante la pratica, sono altri elementi che contraddistinguono l'Iyengar Yoga e che contribuiscono a rendere tale disciplina molto sicura e precisa. 


Tutti gli elementi che abbiamo citato, in conclusione, fanno sì che nel praticante di Iyenagr Yoga si instauri o si rafforzi la relazione di tutte le parti del corpo con l'asana, dell'asana con il respiro, del respiro con la concentrazione, della concentrazione con la meditazione e della meditazione con la “unione suprema”.


“La meditazione deve cominciare con il corpo. Esso è il veicolo del Sé, che, se non è controllato nei suoi desideri, ostacola la vera meditazione.” (B.K.S. Iyengar).

B.K.S. Iyengar